Alfonsina


Alfonsina, terza di nove figli del contadino Pietro Morini, nacque a Castelfranco Emilia (Modena) 16 marzo 1891. Detta “il diavolo in gonnella” e “la regina della pedivella” esordì in pista nel 1907, settima contro 50 uomini nel cross di Stupinigi. Nel 1911 stabilì a Moncalieri il primato italiano femminile dell’ora (ufficioso): 27 km. In gara come dilettante al Giro di Lombardia del 1922 e del 1923, nel 1924 partecipò al Giro d’Italia, prima e unica donna della storia. Corse in sella a una bici ricevuta in regalo per le nozze, accolta sulle strade da bande, fiori e striscioni. Ferita in una caduta e boccheggiante per la bronchite, a Taranto arrivò con quasi tre ore di ritardo. Ancora in corsa nonostante i molti che le consigliavano il ritiro, arrivata all’Aquila con due ore e tre quarti di distacco, a Perugia finì fuori tempo massimo (4 ore di ritardo) e fu ufficialmente esclusa dalla corsa. Ancora in gara fuori concorso, a Verona finì a soli 7 minuti dai primi, a Milano a 30 minuti, festeggiatissima dal pubblico del Sempione che l’accolse al termine di una fatica durata 3.618 km (12 tappe). Negatale l’iscrizione al Giro del 1925, continuò a correre in mezza Europa, soprattutto su pista. Nel 1938 stabilì a Parigi Longchamp il record mondiale femminile dell’ora: 35,280 km. Rimasta vedova, dopo la guerra sposò l’ex ciclista Carlo Messori ed aprì un negozio di biciclette. Morì vittima di un infarto, il 13 settembre 1959, mentre metteva in moto la sua Guzzi.


Ogni volta che vedo una bici appoggiata a un muro penso ad Alfonsina, ci penso soprattutto se si tratta di una bici da donna, di quelle con i raggi a colori sulla ruota posteriore a protezione del vestito o della gonna. Vedo lei in surplace basculante, con le spalle sul muro, in equilibrio, sorridente e, nella stessa foto, un portone di legno offerto al vento, un campanello ossidato che suonerà poco e roco, un parafango arrugginito e il pensiero altrove e lento. Una bicicletta che aspetta è una presenza, un’attesa che sarà presto movimento, azione, fuga, nuova destinazione. Eppure Alfonsina è stata un’atleta molto più che una mamma in bici. Una storia molto strana, un cuneo aguzzo nella pancia borghese italiana. Così, mentre la guardo, afferro per il manubrio quella bici abbandonata, piede sul pedale, salgo sul sellino, accendo il mio motore e penso a lei e a come è andata. Sono tra il mare e la montagna, un po’ città e un po’campagna, le nuvole in cielo stanno diventando ruote, pedali e poi ali.
Alfonsina, sposata Strada, morì nel 1959. L’Italia si apriva a nuove speranze, si ritinteggiavano i muri e le credenze, comparivano i Geloso a bobine a tasti colorati, le rate per i salottini in sky tanto sospirati, sui giradischi Lesa a valigetta e gambe di metallo ondulavano, a 78 giri, le musiche da ballo, Bruno Martino, il Quartetto Cetra, Natalino Otto e Marcondirondirondello, urlava Volare in ogni angolo di strada Modugno e che il futuro arrivi e che vada come vada… Si girava La Grande Guerra perché la guerra era ancora vicina, si girava La Dolce Vita perché qualunque vita è dolce dopo la guerra. Le fidanzate si baciavano sul filobus prima del sacramento, ma la domenica, qualche fortunata, già faceva l’amore nella Nuova Cinquecento. In serie A c’erano Nordhal, Liedholm e Angelillo, tutti uomini che portavano il cappello. Roma si trasformava per l’Olimpiade imminente, sventrando i suoi Lungotevere e asfaltando i binari dei tram, errore grave dai molti rimpianti e pochi pentimenti. Con queste foto in bianco e nero si chiusero gli occhi di Alfonsina. Lei non poteva certo immaginare che molti anni dopo ci saremmo potuti tutti innamorare. Non bastarono le salite e le discese, per morire, le gomme sfinite e scoppiate, le biciclette pesanti come cancelli, le strade bianche di pozzanghere e buche, lei unica donna fra cento fratelli e le migliaia di chilometri nella polvere e nel fango, in quegli anni giovani in cui furoreggiava italico il tango, ma un motore ghiacciato e cattivo, ostinato a non partire. Si era comprata una moto perché non ce la faceva più tanto a pedalare. Destino estremo, letterario e paradossale.
Alfonsina aveva un negozio di bici e aspettava i suoi clienti affacciata sulla soglia, l’ultima di una vita vissuta sempre con la stessa maglia. Si andava da lei anche solo per parlare di nuovi modelli, di copertoni più leggeri e belli, del Giro d’Italia che cercava, dopo Coppi e Bartali, una nuova coppia di odiati fratelli, per amare e, dopo Malabrocca, un ultimo uomo nero da aspettare. Alla fine dell’inverno, si cercava di capire chi potesse scappare sul Berta, nella Milano-Sanremo prossima a venire. Di nascosto si annusava la gomma nuova, il profumo di strada futura, l’ottimismo di partire per un’altra prova. Non sarebbe dovuta morire mai, Alfonsina Strada, la donna che da ciclista era diventata un saltimbanco, che aveva sfidato le saette e i temporali, le sette leghe e i sette mari sui pedali, lo scherno e le dicerie, le battute offensive di certi giornali che ironizzavano sul sellino che accoglieva i suoi glutei di ragazza, infilandosi privilegiato tra le cosce come una ruvida carezza.
La bicicletta, che fino a pochi anni prima era disdicevole per i preti e per i farmacisti, per i medici e perfino per i socialisti, la bicicletta, che il Lombroso associava alla malattia mentale, la bicicletta, che portava gli operai in fabbrica, i preti in chiesa, i comunisti in sezione, i ragazzi a scuola, i contadini ai campi, i pastori alla messa di Natale e pure le ragazze al mare, i partigiani a morire, i ladri a rubare, i metronotte a sorvegliare, i bambini a volare, la bicicletta con Alfonsina Strada divenne coraggio, anticonformismo, tenacia, parità di diritti, pensiero e azione, avventura, fortuna e disperazione.
Alfonsina prese parte al Giro d’Italia del 1924, caso unico per una donna nella storia della grande corsa rosa. Suscitò subito stupore e imbarazzo. Perfino gli organizzatori pare la iscrivessero alle partenze come Alfonsin: un uomo, una donna, un pazzo? Ma senza la vocale finale, per l’ambiguità fino in fondo di non essere stati troppo arditi. Arrivò fuori tempo massimo, Alfonsina, ma portò a termine il Giro con un manipolo di eroi sfiniti. Era il ’24, l’anno di Matteotti, che la Marcia su Roma aveva lasciato impronte fresche, i manganelli di Farinacci ferite lacere ancora al sangue, che le donne non avevano diritto né al voto né all’orgasmo, che la tv non era ancora nata, e la radio gracchiava notiziari misti di propaganda ed entusiasmo e i lampi al magnesio immortalavano ricordi. E gli italiani di fronte a tutto questo ciechi e sordi. Queste foto abitarono gli occhi di Alfonsina nei giorni dei suoi pedali più belli.
Qualche anno fa, con i Têtes de Bois, si era di scena a Milano, proprio nei paraggi della Varesina, la strada che si avventura, ormai tutta urbana, verso i laghi. Ci venne in mente Alfonsina. Volevamo sapere della sua vecchia bottega, se ci fosse ancora qualche traccia di lei da qualche parte, che quella era stata la casa della sua arte. Ci indirizzarono da un vecchio lattaio, un piccolo buchetto quasi buio con pianale del bancone in formica verde e un frigo antico con i maniglioni a leva. Ci apparve un tipetto tutto bianco con il grembiule ben stirato: "Ragazzi, cosa vi serve?". Ci chiedevamo... "Me la ricordo io, l’Alfonsina, le davo un quarto di latte ogni sera. Lei fu una donna vera, ecco il suo civico...". E sussurrando tracciò, penna blu su carta, quel numero, come un numero vincente. In fila indiana ci avviammo fino alla porta promessa, come un viaggio della mente. Per un attimo verso l’alto gli occhi: come se stessimo facendo un gran peccato, eravamo spiati da cento lune di metallo, curiose dai balconi come astri lucenti. Immobili riflessi in serie, eco a pagamento del mondo e del mercato. Scatto e autoscatto: la sua tana è ora una rivendita di telefonia con l’ultima offerta in programma, unico oro da piazzare con successo in questo sterile Duemila. E con i soldi di mamma in attesa una lunga fila.
Così a una stella che ci guardava dalla cucina ho dato nome Alfonsina.

Andrea Satta


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